Lettere dall’Iran

Luca Capocchiano

 

Durante tutto il tempo in cui ho viaggiato in Iran mi sono arrivati dall’Italia continue raccomandazioni e inviti alla prudenza. Ho avvertito la profonda preoccupazione delle persone che mi vogliono bene e la seducente e un pò oscena attesa del disastro da parte di altri, la stessa che, inconfessata, molti provano alla partenza di una gara di F1 augurandosi di vedere un gran botto. Pronti nell’eventualità a dichiarare solenni  “Io gliel’avevo detto” oppure “beh, in fondo se l’è cercata” o amenità simili. E mentre questo accadeva io passavo in mezzo a un Paese meraviglioso, carico di storia, cultura e tradizioni, zeppo di tesori architettonici e paesaggi mozzafiato e in cui, nonostante tutto questo, la cosa più bella e sorprendente che ho trovato sono stati gli iraniani. Col sincero desiderio di accogliere uno straniero, per la disponibilità ad offrire sempre qualunque tipo di aiuto e supporto, e soprattutto con un’ospitalità letteralmente incredibile agli occhi e al cuore di un europeo, gli iraniani hanno fatto in modo che durante i 2500 km percorsi da nord a sud nel loro Paese non solo non mi sia mai sentito in alcun modo minacciato o in pericolo, ma che col passare dei giorni crescesse la sensazione di esserne protetto.

Dopo avere rimontato il motore del TS ero rimasto altri due giorni a Dogubayazit, per sistemare tutti gli ultimi dettagli. Non ero affatto tranquillo del mio lavoro e per il giorno della partenza avevo programmato una tappa breve di appena 120 km, giusto per passare la frontiera e arrivare a Maku, la prima città iraniana oltre il confine. Ero anche preoccupato più del solito per il passaggio in frontiera.

I primissimi chilometri sono stati carichi di ansia, con la sensazione invincibile che un nuovo guaio al motore fosse imminente. Il motore non va bene, sono stato troppo prudente con la carburazione. Con le orecchie tese ascoltavo così attentamente ogni minimo rumore che neppure mi sono accorto di essere arrivato alla dogana. I poliziotti dal lato turco mi han subito notato, e fatto segno di avvicinarmi superando la lunga fila di camion fermi in attesa. Ma non per chiedermi i documenti, piuttosto per vedere me e il mio strano mezzo da vicino. Erano increduli e divertiti e hanno fischiato ai colleghi iraniani di là dal cancello che subito si sono messi a farmi gesti di approvazione. Sulle ali di questo collettivo buonumore passare la frontiera è stato facile e veloce, nonostante sia servito per la prima volta il carnet di passaggio, quella specie di passaporto per il veicolo senza il quale in molti paesi non si entra. Pochi timbri, molti sorrisi e in un attimo mi si è aperto il cancello. Credetemi, la Vespa ha davvero i superpoteri. Una breve discesa e poi finalmente l’Iran, da percorrere per oltre 2500 km dalle gelide montagne del nord da cuoi sono entrato alle spiagge sempre calde del golfo persico. E’ Bandar Abbas la mia destinazione, da dove cercherò in qualche modo di imbarcarmi per l’india. Sono ripartito davvero, il viaggio continua.

IRAN Tragitto 3

 

Evito i mille cambiavalute in nero e ne cerco uno ufficiale. Ci sono alcuni paesi in cui sono convenienti i primi, ma l’Iran non è tra questi. Per 150 euro il cassiere mi mette in mano due pacchi di banconote da rapina in banca, e non è immediato capire il loro valore visto che nessun iraniano parla mai di Reales, la valuta ufficiale, ma di Toman, un suo multiplo e per qualche giorno fatico a comprendere quanto sia economico questo paese. Costa tutto poco.

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Maneggiare i Reales all’inizio non è semplicissimo…

Il primo albergo a Maku, una brutta cittadina stretta tra due pareti di roccia quasi perpendicolari, lo pago l’equivalente di 7 euro. Mi fanno parcheggiare la vespa direttamente nella sala da pranzo e io ne approfitto per modificare ancora la carburazione. Smagrire è sempre pericoloso, perché se si eccede il motore scalda e si grippa. Però per tutta la giornata ho sentito che è questa la direzione da prendere, sono titubante ma alla fine azzardo. E’ la mossa giusta e l’indomani appena ripartito ne ho la conferma. Il motore canta, sembra dirmi “grazie grazie”, divora la strada che mi porta a Tabriz. Fa freddo, moltissimo, ma davvero non lo sento.

 

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Da Tabriz a Teheran

 

Tabriz è una grande città, moderna e vivace. Mi fermo solo un giorno, giusto il tempo per vedere il suo antico bazar coperto tanto famoso, e comincio a farmi un’idea di questo Paese di cui tanto si parla nei nostri telegiornali e sempre in termini negativi.  La prima cosa che mi colpisce è l’abbigliamento delle ragazze. Come noto, la dittatura degli Ayatollah le obbliga un “abbigliamento morale”, che tradotto ai minimi termini significa avere perlomeno capelli e chiappe coperte e niente di aderente addosso. A Tabriz tutto ciò viene interpretato in maniera abbastanza elastica; i foulard sono sempre molto alti, le ragazzine lo spostano tutte praticamente sulla nuca e portano gli occhiali in testa, sembra una moda. Ho l’impressione che queste regole non sia così poi tanto rigide, ma capirò in seguito che esistono enormi differenze all’interno del Paese, specie tra città e villaggi.

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Il bazar di Tabriz, il più grande di tutto l’Iran

Le ragazze iraniane sono belle e vanitose, diversissime dalle ragazze turche che quasi sempre rimandavano all’omologo aggettivo sostantivato..Ma la cosa che più mi colpisce è la grandissima pericolosità di muoversi a piedi, soprattutto nell’attraversare la strada. La precedenza al pedone semplicemente non esiste, neppure sulle strisce. I clacson sono una sinfonia continua,  usati con la stessa frequenza del pedale della frizione o del cambio. Scoprirò che lo fanno per molteplici scopi: uno dei più frequenti è proprio di avvertire i pedoni che attraversano la strada che loro non hanno la minima intenzione di rallentare.

Il giorno dopo sull’autostrada per Karaj vedo anche di peggio. Rimane deserta e tranquilla fino a pochi chilometri dal centro, ma quando mi avvicino il traffico si addensa e vedo scene inimmaginabili agli occhi di un europeo. Le tre corsie diventano cinque: non c’è solo il sorpasso a destra, le macchine si sfilano ovunque anche a cavallo delle strisce di mezzeria, si buttano dentro a ogni spazio. Le macchine si sfiorano, cambiano corsia in continuazione. Pure la corsia di emergenza viene utilizzata per i sorpassi e io, che normalmente viaggio a ridosso della linea che la delimita la strada, mi vedo sfrecciare le macchine alla mia destra, tra me e il guard rail, e mi irrigidisco. Decido di occuparla io e mi piazzo a mezzo metro dal guard rail, per avere almeno un lato coperto. E’ anche sulla scorta di questa esperienza che decido di non entrare a Teheran. Il traffico delle grandi metropoli rappresenta il pericolo maggiore dei miei spostamenti, ne ho già avuto prova a Tirana e Istanbul. E poi le grandi città mi interessano poco. Viaggio per vedere e conoscere cose nuove e diverse dalla mia normalità, e le grandi città, come i villaggi turistici e i centri commerciali, si assomigliano sempre troppo per me.

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I paesaggi proposti dal nord dell’Iran sono fantastici

In questa fase viaggio molto e tutti i giorni, il TS fila come il vento e decido di non fermarmi fino a Isfahan, di cui leggo meraviglie. Il freddo è una costante. In Iran, diversamente dall’idea che ne abbiamo in occidente, ci sono “anche” due grossi deserti ma per la grande maggioranza è occupato da catene montuose e da un vastissimo altopiano, sempre attorno ai 1500 metri: è su questo che sto viaggiando e che mi scorrerà sotto le ruote praticamente fino al mare del golfo persico.

Mi fermo a Kashan, piuttosto anonima e passo per Qom, che invece mi colpisce molto. E’ una piccola cittadina, molto tradizionalista e la cosa è evidente da subito. Tutte le donne indossano lo chador integrale, che le copre dalla testa ai piedi, rigorosamente nero. Sembra di passare per una città abitata da monache, o da spettri. Qui davvero si sente e si vede il peso delle costrizioni che vivono le donne, ed è una brutta sensazione. Quel velo le spersonalizza, le rende tutte uguali, gemelle omozigote identiche al campione di morale suggerito dalle autorità religiose. E’ triste e fa rabbia.

Quando finalmente raggiungo Isfahan decido di concedermi qualche giorno di riposo. La città è davvero bella come dicono, con tesori architettonici e splendidi ponti sul fiume che mi ricordano Firenze. E’ qui che incontro tre italiani particolari. Alex e Teresa sono due ragazzi napoletani, partiti a bordo di un BMW con destinazione Australia. Con loro c’è Veronica, viaggiatrice solitaria che passa un mese intero in Iran. Ci intendiamo subito a meraviglia. Tra viaggiatori soprattutto ci si scambia informazioni e pareri su Paesi visitati e da visitare. Parlando della loro rotta Alex accenna al Pakistan. Con una sguardo e un tono quasi paterno lo avverto: ”Guarda che in Pakistan non si passa, l’ambasciata non concede visti” “ Veramente li abbiamo già sul passaporto”. Io in quel momento mi volto a cercare un cammello, un mulo, almeno un sanbernardo per mangiare, come si suol dire, la più grossa merda che abbia mai visto. ”Avete il visto? E come stracazzo ci siete riusciti??”

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Con Alex a Isfahan. Teresa è dietro in posa plastica che fotografa Veronica

Da buoni napoletani sono stati più scaltri di me. Semplicemente, nella richiesta hanno omesso il piccolo particolare che avrebbero viaggiato in moto. Hanno richiesto un visto turistico, punto. Anche a me avrebbero concesso un visto per la sola città di Karaci, a patto di arrivarci e ripartire in aereo; ma io avevo raccontato la verità, che mi serviva un visto per entrare dal confine con l’Iran e uscire da quello con l’india, ricevendo un gigantesco due di picche che manco a 16anni in discoteca. Loro invece sono certi, sulla scorta di esperienze altrui che in questo modo sono passati, che arrivati in frontiera sia sufficiente avere il visto sul passaporto, e che se qualcuno dovesse storcere il naso per la moto la loro opinione sarebbe facilmente modificabile a fronte di un piccolo…. incentivo. Con grandissima onestà intellettuale e aperta franchezza calo le carte: ”Ragazzi, non avete idea di quanto mi state sui coglioni!”.

Stiamo insieme tutto il giorno e ci salutiamo con la sensazione che prima o poi le nostre strade si incroceranno ancora, senza bisogno di darsi appuntamento.Per la cronaca, al momento in cui scrivo sono ormai a vicini al confine dell’India, sani e salvi.

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Uno dei magnifici ponti di Isfahan

La città successiva è Yazd, che ho letto si trova proprio dentro al deserto. Il suo centro storico è bellissimo, con case e palazzi costruiti con mattoni di fango 2000 anni fa e un panorama punteggiato dagli ingegnosi bagdir,i primi condizionatori della storia. Ma il resto è pur sempre un’altra città, e di deserto non se vede.

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I cartelli sradali in Iran non sono sempre comprensibili….

La mia rotta prevede di puntare verso Shiraz, la seconda città dell’Iran, nelle cui vicinanze si trovano le rovine di Persepoli, l’antica capitale dell’impero siriano. Ma mi sono stufato di città e ho invece una gran voglia di perdermi nei villaggi e nei deserti qui attorno e così dopo essermi informato per bene decido di visitare un villaggio di nome Fahraj , distante appena 50 km. Non me ne pentirò. Fa ancora freddo, nonostante ormai abbia deserto tutto attorno, e faccio fatica ad accettare un abbinamento che mi sembra un ossimoro.

Durante i tantissimi chilometri di strada fino a qui ho incontrato centinaia di persone. Ogni volta che mi fermo a fare benzina vengo avvicinato, dapprima molto timidamente e poi letteralmente circondato, da gente d’ogni tipo, tutti curiosi di me e del TS. Rivolgono domande che, quando si trova qualcuno che le possa tradurre in inglese, alle mie orecchie suonano divertenti, intriganti, sorprendenti. Dopo l’ovvia “Da dove vieni” seguono quasi sempre nell’ordine “Cosa si dice in Italia dell’Iran?” –“Che lavoro fai e quanto guadagni?”– “Come si chiama tuo papà?” –“Quanti figli hai?”– “Quanto fa la vespa?”

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Ma quella che più mi colpisce è l’onnipresente “Posso fare qualcosa per te?”. Ricevo continue offerte di the, cibo, frutta, sigarette. Spesso quando in città chiedo informazioni su dove trovare un hotel, anche in assenza totale di comunicazione verbale mi fanno capire, battendosi il petto con la mano e unendo i palmi della mani vicino a un orecchio, che mi stanno invitando a casa loro. Molte volte mi hanno fatto invece cenno di seguirli, sono saltati in macchina e mi ci hanno accompagnato. Mi sono successi molti episodi ancora più estremi e particolari, ma è sulla strada per Faharj che accade quello che per me meglio li rappresenta

Senza entrare nel merito del come e perché, mi sono ritrovato in una autostrada deserta e buia,senza luce anteriore e senza possibilità di una riparazione d’emergenza. Sapevo solo di essere molto vicino alla mia uscita. Con una visibilità di 2-3 metri appena, procedevo a 10 km/h sulla corsia d’emergenza ripetendo “Coglionecoglionecoglione” come un mantra nella mia testa e cercando di non perdere il cartello con la mia uscita. Le macchine dietro mi vedono, il fanale posteriore funziona, e mi sfrecciano a debita distanza. Ma ne arriva una che invece di superami mi si accoda. Subito non capisco, mi viene quasi voglia di fare segno di superarmi, di andarsene e lasciarmi in pace nella mia merda. I suoi fari sulla mia schiena proiettano un’ombra lunghissima sulla mia strada che peggiora ulteriormente la già irrisoria visibilità. Lo capisce anche chi guida, quindi mi affianca e dal buio dell’abitacolo vedo una mano che mi invita a seguirlo. Con i fanali della macchina a fianco vedo benissimo, e inizio progressivamente ad accelerare. Lo fa anche lui, adeguandosi alla mia velocità. Insomma mi ha scortato, offrendomi un aiuto insperato senza neppure averglielo richiesto. Procediamo appaiati per qualche decina di chilometri,e io sono davvero incredulo di tanta generosità.Quando vedo finalmente la mia uscita, lo saluto con la mano e lui risponde con l’immancabile clacsonata. Non saprò mai neppure che faccia avesse, ma davvero ho chiesto a Dio di benedirlo. Non conosco un altro Paese in cui penso sarebbe potuta succedere una cosa simile.

A Fahraj resto tre giorni in un albergo meraviglioso: una antica casa di nobili beduini, un rettangolo di muratura costruito attorno a un cortile centrale con piscina e giardino, perfettamente restaurata e soprattutto deserta: sono infatti l’unico cliente! Mi danno le chiavi ed è come vivere dentro a un romanzo. Alì, il garzone del proprietario, viene solo per prepararmi i pasti. Sarà lui ad accompagnarmi nel deserto, consentendomi l’emozione indescrivibile di guidarci il TS dentro, salire e scendere dalle dune sabbiose, curvare a manetta su enormi curve paraboliche che ne costituiscono i fianchi. Fantastico.

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Dopo il deserto era d’obbligo una bella pulizia. C’era sabbia pure nel contachilometri!

Ma è tempo di raggiugere Bandar Abbas e il golfo persico. Sono a 600 km e sulla strada mi fermo a Meymand, un incredibile villaggio troglodita scavato nella roccia migliaia di anni fa e tuttora abitato.

Durante l’ultima tappa mi domando quando mai arriverà il caldo. Sono ormai a 150 km dal mare, ma l’aria è ancora fredda e sarebbe impossibile guidare senza guanti e giacca. Eppure tutti mi hanno detto che a Bandar Abbas troverò almeno 30 gradi in questa stagione. Finalmente, dopo un breve e spettacolare passo, inizio a scendere davvero, vedo la pianura all’orizzonte e mi lascio alle spalle l’immenso altopiano. E finalmente sento l’aria cambiare, il sole ora scalda davvero e inizio a vedere molte palme attorno a me. E’ un attimo, la stagione attorno a me cambia con una rapidità sorprendente, pochi chilometri ancora e sarà estate.

A Bandar Abbas fa caldo davvero, finalmente. Guido in maglietta e potrei fare il bagno in mare. È da quando ho lasciato il mar nero a Trazbon in Turchia, circa 4000 km fa, che ho convissuto con un freddo potentissimo al quale io, da buon ligure, non sono abituato.

Dormo ospite di Omid, un ragazzo contattato tramite Couchsurfing. Ha un appartamento molto carino, se non fosse che sia camera sua che quella degli ospiti sono completamente prive di arredamento. Niente letto, niente armadio, neppure un comodino. Omid dorme per terra su un piumone in camera sua, non ho avuto il coraggio di chiedergli perché…Oltre a me ospita Bjorne, una specie di vichingo con la faccia buona, un ragazzone tedesco che è partito da Amburgo ed è arrivato fino a Trazbon in Turchia a piedi, seguendo i binari del treno. Ma faceva troppo freddo per continuare, così da allora si è mosso in autostop. Decisamente mi sento il più “normale” tra i giramondo incontrati finora…

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Bjorne, a spasso per l’Asia a piedi.

Compro un biglietto per il traghetto che mi porterà a Sharja, negli Emirati Arabi. So che le procedure per imbarcare la vespa saranno difficilissime, leggo racconti agghiaccianti di chi ha fatto l’esperienza prima di me. Chiedo a Omid se conosce qualcuno che possa aiutarmi e con clamorosa botta di culo,che manco Sacchi a USA 94 ,scopro che Omid lavora in porto e suo padre persino nella compagnia dei traghetti.

Alle 8 di mattina del giorno dopo siamo al porto. Lo conoscono tutti, saluta tutti con confidenza. Nonstante questo riusciamo a caricare la vespa sul traghetto solo alle 16. Non ho proprio idea di come avrei fatto da solo.

Alle 20 il traghetto parte. Esco sul ponte a vedere allontanarsi il molo, la città, un Paese bellissimo. Contro l’Iran è stata condotta una guerra mediatica per ragioni politiche, in cui adesso non ho voglia di entrare. Dirò solo che ogni guerra porta sempre con sé vittime innocenti; in questo caso, la reputazione e l’immagine di un intero splendido popolo.

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