Dall’Australia a Santiago del Cile non ci sono strade, ma il più grande oceano del mondo che attraverso con un volo che fa scalo ad Aukland e che mai scorderò.
Innanzitutto perché è un vero viaggio nel tempo: decollo da Aukland alle 16.15 per arrivare, dopo 11 ore di volo, a Santiago alle 12.15 ma…..dello stesso giorno! Il tempo è relativo e in fondo non è che una convenzione umana. E poi perché l’atterraggio a Santiago propone una vista spettacolare: finito di sorvolare l’immenso oceano Pacifico si intravede finalmente la costa e subito dietro una fila di montagne basse e parallela alla spiaggia deserta. Santiago è subito dietro, stretta tra queste montagne e quelle ben più imponenti della Cordigliera delle Ande, col le cime bianche dei ghiacciai.
Santiago è bella, spaziosa e con tanto verde, con un traffico sopportabile e tagliata in due da un fiume che la attraversa completamente. Non ha nulla di meraviglioso, ma mi piace subito. Mi ospita David, un artista italiano che qui vive e lavora. Il balcone di casa sua, chiuso da una veranda di vetro, diventa la mia stanza per quattro notti, più di quanto immaginassi: il TS infatti non è partito alla data prevista, mi parlano di una sorta di overbooking e nessuno sa dirmi con esattezza quando arriverà.
Ma intanto stasera c’è la partita: qui non si parla d’altro che della coppa America di calcio, del Cile che ha già vinto le prime due partite e di quel coglione di Vidal che ubriaco ha schiantato la sua Ferrari 458 Speciale il giorno dopo la seconda vittoria. David ha una ragazza che sembra Belem, persino più bella perché semplice simpatica e sorridente. E’ a casa sua che andiamo a vedere Cile-Bolivia, c’è un sacco di gente e ognuno ha qualcosa di rosso addosso. Il tifo è scatenato e le birre volano. Finisce 5-0 per il Cile e la città impazzisce: il calcio qui è davvero una religione.
La mattina dopo telefono in aeroporto, mi dicono che la Vespa è arrivata e di andare a ritirarla. Io ci vado e mi porto dietro tutti i documenti, ma è sabato e penso a quanti staranno ancora smaltendo la sbornia della sera prima: insomma sono assolutamente certo che prima di lunedì non riuscirò a rivederla. M i sbaglio: in meno di tre ore mi consegnano la cassa, quella stessa cassa in cui a Wollongong l’avevo chiusa dentro, e mi sembra una magia. In india per la stessa faccenda ci erano voluti otto giorni, e avevo pure un’agenzia che mi aiutava nel disbrigo delle pratiche. Misero, davvero misero è il popolo che ha bisogno di burocrazia.
Smonto la cassa, monto la vespa e in due ore sono di nuovo in sella. La Vespa va benissimo, in Australia ho fatto molti lavori e cambiato tantissimi pezzi. Ora parte sempre alla prima pedalata (e mi sembra un sogno….), ho un intero continente davanti che mi aspetta e non vedo l’ora di vederlo
Avevo scelto di arrivare a Santiago ancora prima di partire da Genova ma allora pensavo che avrei proseguito verso sud, verso la Patagonia e Ushuaia, la città che dicono più a Sud del mondo (ed è una bugia…) Immaginavo però di arrivarci in un’altra stagione e non in pieno inverno, come invece è successo a causa del ritardo sulla mia tabella di marcia. Andare laggiù adesso sarebbe molto simile ad andare in Islanda a dicembre: pare che di notte si raggiungano i -20°C e le ore di luce siano pochissime. Inoltre mi sembra che chiunque faccia un viaggio in moto in questo continente vada a Ushuaia, come fosse un pellegrinaggio o una moda, e a me le mode sono sempre state sulle palle. Decido quindi di cambiare rotta: un conto è l’avventura, altro il sadomasochismi puro! Muoverò invece verso nord, verso la Bolivia e il Perù, cercando il caldo e di raggiungere il Brasile attraversando la foresta Amazzonica. Ma prima di tutto ho da risalire circa 2000 km di Cile.
Il Cile è un striscia sottilissima, 4000 chilometri larghi qualche centinaia al massimo, ma la sua forma bizzarra non è opera dell’uomo ma di confini naturali nettissimi: la cordigliera delle Ande a Est, il Pacifico a Ovest, il deserto più arido del mondo a nord e i ghiacci della terra del fuego a sud. E’ per questo che è rimasto isolato dal resto del continente per millenni, e le sue genti hanno avuto pochi o nulli contatti con le altre civiltà precolombiane.
Il Cile dalla splendida bandiera e inno, il Cile che ancora oggi abbassa la voce e lancia sguardi furtivi attorno se gli chiedi di Pinochet( il sanguinario generale che gli americani misero al potere con un drammatico colpo di stato la notte in cui il presidente Allende si sparò barricato nel suo ufficio, per non cadere vivo nelle mani dei militari e dopo avere lanciato un leggendario messaggio radio alla nazione), il Cile ricchissimo di miniere e il Cile del quale io pochissimo sapevo e in fondo pochissimo mi aspettavo.
Salutato David muovo verso nord e la prima città che incontro è Valparaiso. Furono marinai italiani a dare questo nome a una valle che certamente allora era molto diversa da come è oggi. Valparaiso è una grande città totalmente cementificata, nettamente divisa in due parti: quella bassa è piatta e ricoperta di palazzi e grattacieli schiacciati contro al porto e chiusa alle spalle da una parete di roccia quasi verticale. Quella sopra è invece dominata dai “cerros”, ampie e ripide colline su cui è cresciuta una parte di città molto diversa, tutta saliscendi e decisamente più caratteristica, con bassi edifici coloniali e strade di ciottolato disastroso. Scalinate vertiginose e vecchissimi e scricchiolanti ascensori collegano le due parti della città. E tuttavia è un posto speciale, vivo ed energico, con palazzi e strade completamente ricoperti da splendidi murales che sono il simbolo della città.
Il giorno dopo riparto, sempre in direzione nord e sempre con l’oceano Pacifico fisso a farmi compagnia alla mia sinistra, e ho un incontro davvero speciale. Sono fermo a bere un caffè in un chiosco per la strada quando sento picchiare il vetro dietro di me. C’è uno strano individuo con una bandana in testa, ha visto il TS e si è fermato. Dietro di lui una piccola moto assurdamente ricoperta di bagagli. Esco e ci presentiamo. E’ Luis, colombiano di 40 anni, partito da casa per andare a lavorare ai mondiali di calcio in Brasile nel 2014 e non ancora tornato a casa nonostante una moglie e una figlia che lo aspettano. Capisco in fretta di trovarmi di fronte a un personaggio eccentrico, di quelli che solo il viaggio propone, e la cosa mi piace assai. Ho sempre avuto un debole per i folli e la pazzia, che trovo tremendamente seducente. La sua moto è un grandissimo cesso cinese, impresentabile in Europa, di cui lui dice meraviglie che io ascolto con grande dignità e silenzio. Va anche lui verso nord e decidiamo di proseguire insieme. Io adoro la mia solitudine, la mia libertà e indipendenza sono sopra di tutto, ma Luis mi sembra troppo speciale per lasciarlo andare via.
Luis viaggia senza soldi. Non ne ha. Se deve fare benzina si ferma dal distributore e aspetta che qualcuno, incuriosito dalla sua buffa moto e dal suo ancora più buffo centauro, gli rivolga parola. Lui allora inizia raccontando la sua storia, i posti e i paesi visti, dell’aiuto che Dio gli fa trovare quotidianamente per strada; tira fuori piccoli oggetti di artigianato che fabbrica da solo e propone uno scambio, un oggetto per la benzina, per un pedaggio, per un pasto. Agli alberghi propone lavori di manutenzione elettrica o idraulica in cambio di un letto per la notte. Io lo ascolto con un misto di compassione, invidia, stima, meraviglia. Io non potrei mai viaggiare così, eppure lui lo fa da oltre un anno. Dice che il suo viaggio è benedetto da Dio in persona ed è per questo che trova sempre aiuto ed appoggio: la sua moto si chiama “Benedicida” apposta. Luis mi piace sempre di più.
Pilar, la bellissima ragazza di David, mi aveva segnato sulla cartina stradale alcuni luoghi da vedere. Uno di questi si chiama Tongoy ed è lì che arriviamo, TS e Benedicida sommerse di bagagli con due strani compagni di viaggio a bordo. Il posto è stupendo: un autentico villaggio di pescatori, placido e indolente, con una splendida spiaggia di sabbia e nessun turista in giro.
C’è un baretto coi tavolini sulla spiaggia, il sole è già enorme e rosso e pronto a tuffarsi in mare a svegliare l’Australia; ci sediamo e senza aspettare che Dio, sempre molto occupato e spesso distratto, manifesti a Louis il Suo quotidiano aiuto penso, con sconfinata superbia, di farne io le veci ordinando due birre gelate che qui vendono in enormi bottiglie da 1,2 litri.
Louis parla e racconta, e lentamente la sua voce mi sembra arrivare da molto più distante che non dalla parte opposta del tavolino. Racconta di cose e fatti incredibili e io inizio a smettere di domandarmi dove sia il confine tra la realtà e la sua immensa fantasia. Penso sia ora di cercare un campeggio per la notte ma Louis ha già trovato una soluzione senza che neppure io me ne accorgessi: ha chiesto alla proprietaria del baretto il permesso di farci mettere le tende nella loro veranda coperta, proprio davanti alla spiaggia. Permesso accordato, stanotte si dorme qui.
E’ la sera di Chile- Uruguay, la partita del geniale dito in culo a Cavani, e noi la guardiamo dentro al baretto con una ventina di locali agguerritissimi. Mangiamo cozze enormi e molluschi sconosciuti al vecchio mondo (“Locos”) che il mio colon mi rinfaccerà per giorni.
C’è birra ed euforia, Cavani si fa espellere, il Cile segna ancora e vince e si esce a festeggiare sulla spiaggia, le sigarette fanno ridere e io ricordo la voce di Louis che ancora parla e racconta e sembra un libro di Verne:
” Sai che l’anima pesa 300 grammi? Su Youtube trovi il video: c’è questo tizio che sta morendo, lo mettono su un lettino che è su una bilancia e lo filmano con una telecamera speciale. Quando muore si vede l’anima che lascia il corpo e sale in cielo e quando è volata tutta via inquadrano la bilancia e segna 300 grammi meno di prima”.
Io penso all’oppio dei popoli, al bisogno di religione insito nell’uomo, all’ancestrale paura della morte e del suo dopo; penso alle infinite miserie e lutti causati dai fanatismi, penso a Torquemada e alla Santissima Inquisizione, all’abiura di Galilei e al rogo di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, alla vendita di indulgenze (“come il soldino nella cassa risuona, ecco che un’anima il purgatorio abbandona“.) e a Lutero col martello che inchioda uno scisma sulla porta di una cattedrale; penso agli ori e all’opulenza di chiese e moschee, a Calvi e allo IOR e a tutti i maledetti banchieri di Dio. E tutto, tutto questo penso io, per tre etti di roba.
La musica è finita da un pezzo ormai e tutti sono andati a festeggiare altrove, io sono già dentro al sacco a pelo ma Louis è ancora carico e mi chiama fuori per un’ultima sigaretta. “Sai io a volte parlo con la gente ma so di non essere io a parlare, è come se qualcun altro parlasse attraverso di me, io sono solo il mezzo”. Alzo il cane: “E chi pensi che sia?”. Pausa teatrale, occhi bassi e sospiro profondo, poi fuoco: “Io penso che sia Dio: non so perché ma ha scelto me per fare sentire la Sua voce”. Quanto adoro il mio viaggio, quanto amo i personaggi che mi mette tra le ruote del TS, quanto ammiro la follia quando è spontanea e genuina.
Ci separiamo due giorni dopo e pochi chilometri più a nord, in una grossa città che si chiama La Serena dove ci fermiamo per cercare camere d’aria per me e olio motore per lui. Mentre chiediamo informazioni un uomo si avvicina e propone di accompagnarci. E’ Manuel, un motociclista entusiasta soprattutto del TS, ci invita a casa per pranzo e finisce che ci fermiamo anche per cena e poi a dormire. Ha un piccolo appartamento che non usa e che lascia a nostra disposizione. Al mattino io riparto ma Louis, in una camera dal letto matrimoniale con bagno pulito e doccia calda, cucina con frigo e the e caffè liberi, decide che si sta troppo bene e chiede a Manuel di potersi fermare un altro po’. Ci salutiamo ridendo, con la promessa di rivederci ancora un giorno da qualche parte. Buon viaggio Louis.
A 1000 km a nord di Santiago inizia il deserto. Non ancora quello terribile dell’Atacama, ma un deserto lungo e sottile che prosegue a ridosso del Pacifico su fino al Perù. Per altri mille chilometri ci sono solo piccole città che servono le tante miniere di cui il Cile è ricchissimo. Città orribili, separate tra loro e dal mondo da centinaia di chilometri di niente, bellissimo stupendo e inutile niente. Città in cui spacciatori e puttane fanno affari d’oro, dove le stanze di ostello sono poche sporche e carissime e dove puoi solo aspettare il momento in cui te ne andrai da lì. Così è Copiapò, la città teatro della più grande sceneggiata e fenomeno mediatico degli anni 2000: il salvataggio dei “los 33”, i minatori rimasti intrappolati a 700 metri sottoterra per il crollo del tetto di una miniera, recuperati sani e salvi dopo mesi a seguito della più grande “missione di salvataggio” mai messa in piedi e tutto grazie a un presidente in crisi nera di popolarità e alla disperata ricerca di una maniera per recuperarla.
La strada, invece, quella è meravigliosa. Per centinaia di chilometri uguale a se stessa eppure impossibile da definire noiosa. Un deserto di dune, rocce ricoperte da cespugli gialli e pieno di cactus, lama e condor, che si tuffa letteralmente dentro l’oceano pacifico: i cactus crescono fino sulla spiaggia. Due forze immani che si scontrano da secoli in evidente stallo, che si affrontano senza potere avanzare di un solo passo. In mezzo la strada diritta e piatta e una vespa gialla, testarda e tenace, che avanza nel sole pallido e nell’aria gelida dell’inverno australe. C’è un limite alla bellezza? Ci si può stancare del meraviglioso? Me lo sono chiesto spesso in quei giorni, senza trovare una risposta.
Tutto è immobile, splendido e uguale a se stesso da sempre e per sempre. Penso che tra poco saluterò il Pacifico, che dopo avermi fatto compagnia per centinaia di chilometri lungo la costa sud ovest dell’Australia, da Adelaide fino a Sidney passando per la mitica Great Ocean Road, dovrò dirgli addio. E’ l’oceano più grande e si sente. Ha vibrazioni potentissime, è bellissimo e sa di esserlo. E’ diverso da tutti gli altri e tra la costa australiana e questa, pur con 15000 km di distanza e acqua, trovo grandi analogie. Anche qui questo oceano schiuma sempre anche quando non è particolarmente mosso, le onde si increspano a centinaia di metri dalla riva e file di schiuma parallele avanzano verso la spiaggia. Lo guardo e lo riempio di foto, che mai e poi mai potranno catturarne l’energia. E’ un lungo addio, centinaia di chilometri, e sono sicuro che anche Lui è dispiaciuto di dovere salutare quello strano puntino giallo, così lento ed ostinato.
Ad Antofagasta modifico la rotta in direzione est verso san Pedro di Atacama e le sue meraviglie. Ma prima c’è la semifinale Cile-Perù, ossessivamente presentata come “el clasico del Pacifico”. Vince ancora il Cile e questa brutta città esplode letteralmente di gioia. Io mi confondo alla folla, scivolo silenzioso accanto a loro come un infiltrato. Nessuno mi nota. Al mattino quando riparto getto un ultimo sguardo al Pacifico.
Da Antofagasta a San Pedro ci sono 350 chilometri che salgono per 2500 metri, percorsi tutti di un fiato in una tappa che mai scorderò. Sento il TS affannare e tossire, progressivamente perdere potenza al salire ed ingrassare la carburazione. Lo scenario è completamente cambiato qui: attraverso ora un deserto molto diverso dal precedente, privo di vegetazione e sabbioso. Un infinito piano inclinato che sale, lento ma implacabile, sale e sale. Alla fine di questa salita arriva finalmente un passo, che si intravede già da lontanissimo e vedo avvicinarsi poco alla volta. Sono preoccupato per il motore della vespa che invece, lento come un’agonia, riesce a superarlo.
Di là si scende e torno a correre veloce come il vento in un paesaggio sempre più lunare. Finalmente dietro l’ultimo tornante vedo la piana di San Pedro, e l’arrivo non lo scorderò mai. Come potrei? Ecco quel che mi si presenta agli occhi.
San Pedro è un posto vivo e pieno di gente interessante di tutto il mondo. Un poco turistico eppure ancora autentico, e soprattutto circondato da meraviglie di ogni genere: lagune, saline, vulcani spenti e attivi, geyser, fonti termali, passi andini alti oltre i 6000 metri. La cordigliera qui è divisa in due: dietro un crinale è l’Argentina, dietro l’altro la Bolivia con un immenso altopiano che resta oltre i 3500 metri migliaia di chilometri quadrati. È verso quell’altopiano che muovo il mattino dopo la storica vittoria del Cile con l’Argentina.
Tutto il paese chiuso in un bar con mille tavolini e tv piazzate dappertutto, locali e turisti tutti insieme a tifare la straordinaria avventura e cammino della cenerentola. Il Cile vince ai rigori, dove tra gli argentini è il solo Messi a segnare e Sanchez fa il cucchiaio. E’ il delirio e le strade del paese si riempiono di festa e canti, nessuno ha freddo nonostante l’inverno andino e i cani sembrano festeggiare con noi. Un posto magico per una notte magica. E’ il mio addio al un paese che ho trovato molto più bello di quanto mi aspettassi.
Muovo verso il confine con la Bolivia salendo verso le cime più elevate delle Ande. Non c’’e asfalto né alberghi né stazioni di servizio: non c’è nulla quassù. Ci metto quattro giorni, due in territorio cileno e due in boliviano, a ritornare alla “civiltà”: quattro giorni che sono un altro viaggio nel viaggio, in cui dormo in case di “campesinos”, sempre oltre i 3500 metri e con una meravigliosa sensazione di solitudine attorno, che galoppa senza interruzione di continuità per cime, vallate e strade polverose.
Il TS arranca, fatica e sbuffa, ma anche questa volta non mi delude. Ancora circondati dalla bellezza per giorni, senza potersene allontanare, senza riuscire a non guardarla negli occhi.
Quando esco dall’incanto è già Bolivia ormai. Arrivo a Uyuni, dalla parte opposta delle Ande; un brutto posto, finalmente.