Lettere dall’India

Luca Capocchiano

Per raccontare la mia India inizierò dalla fine. A Imphal, la capitale del remoto stato di Manipur al confine con la Birmania, ho incontrato i due motociclisti insieme ai quali avrei attraversato questo Paese.

In una stanza di albergo davanti a qualche birra ci siamo scambiati le nostre impressioni e aneddoti sul misterioso Paese appena attraversato. Io ne avevo percorso oltre 4500 km per oltre 6 settimane di permanenza, loro poco meno di me e nello stesso periodo. La cosa sorprendente è che nessuno riconosceva la “propria” India nei racconti altrui. Come avessimo visitato Paesi differenti. Io avevo passato settimane nel freddo e nella nebbia della sterminata valle del Gange, Diego era al caldo del sud e Dan a sciare sulle nevi del Kashmir. L’India è immensa. Solo alcuni elementi erano comuni nei nostri ricordi: il traffico folle e assassino e perennemente attaccato al clacson, l’incredibile densità di popolazione, la merda. Merda di vacca soprattutto, ma anche di cani, scimmie, capre, maiali e cinghiali, asini e cammelli, bufali e pappagalli: talvolta persino umana.

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E’ sfinito luogo comune dire che l’India “o si ama o si odia”: io, come spesso mi succede, non sono d’accordo e rappresento evidentemente un’eccezione.

Non riesco ad amare un Paese sporco oltre l’umana immaginazione e sovrappopolato a livelli demenziali, faticosissimo da vivere e attraversare, stancante in tutte le accezioni del termine. Ma non potrei odiare un luogo così pieno di meraviglie e tesori, vivo e coloratissimo. E soprattutto diversissimo da tutto. L’India è distante anni luce da tutto il resto del mondo, non assomiglia a niente e spesso neppure a se stessa, e poiché la diversità è certamente ricchezza, è il Paese che più mi ha arricchito.

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Ho iniziato dalla fine proprio per rendere chiaro che non posso che parlare della “mia” India, degli stati che ho attraversato: sei settimane sono lunghe, in India lunghissime, ma non certo sufficienti per comprenderla davvero, ammesso che sia possibile

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Del mio arrivo a Mumbai già ho raccontato in un precedente post. Arrivato a notte fonda in aeroporto e da lì in taxi in albergo, non avevo visto nulla attorno a me. La mattina successiva appena messo piede fuori dall’hotel è stato un shock. Continuavo a ripetermi: “whow…” con gli occhi sgranati e i sensi in fiamme. Un mondo nuovo, brulicante di gente e traffico, colori e odori mai visti, un apparente clamoroso caos che in qualche maniera sembrava funzionare. Ho temuto di innamorarmene follemente. Dopo mezza giornata il timore era sparito….. Troppo, davvero troppo caotica e con un traffico semplicemente terrificante.

Appena pagato il riscatto all’associazione a delinquere di stampo spedizioniere che mi aveva sequestrato la Vespa sono ripartito pieno di curiosità. La direzione era fissata da motivi burocratici: dovevo raggiungere Delhi per chiedere visti per i successivi paesi da attraversare, ma tutto quello che ci stava in mezzo era libero. Dal Maharashtra, il ricco stato in cui si trova Mumbai, ho attraversato il Gujarat e il Rajastan: il primo tuttora pervaso dalla figura di Gandhi che qui nacque visse e organizzò la sua famosa marcia del sale, il secondo terra dei grandi Maharaja, di deserti e cammelli, e forse oggi la principale destinazione turistica del subcontinente indiano. Ma da subito ho capito che avrei dovuto soprattutto provare a sopravvivere nel folle traffico indiano.

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Già il traffico. Senza dubbio l’aspetto che più ho detestato dell’India, persino più della sporcizia. Descriverlo è difficilissimo perché è talmente sregolato, folle, pericoloso, irresponsabile, stupido e distante da qualunque idea di “codice della strada” che è difficile immaginarlo: anche quando lo vivi fatichi a crederlo.

Eppure io non sono affatto un fanatico dell’odine e delle regole: riguardo a quelle del codice della strada ho sempre provato antipatia soprattutto poiché vivo in un Paese in cui da molti anni vengono utilizzate come squallido pretesto per battere cassa. In nome della “sicurezza stradale” siamo sempre tutti disposti ad accettare nuove regole. L’obbligo del casco per le moto e delle cinture sulle auto sono forse gli ultimi esempi di reale e non completamente ipocrita tentativo di incrementare la sicurezza stradale. Oggi abbiamo la patente a punti (che però se vado oltre i limiti in autostrada e l’autovelox mi becca, posso non dichiarare chi guidava pagando il doppio della sanzione, e dei punti se ne dimenticano più che volentieri..) , l’obbligo di gomme invernali in liguria (equivalente all’obbligo di condizionatori per gli esquimesi) e l’imprescindibile necessità di avere a bordo giubbottini arancioni rifrangenti ( venduti a milioni nelle settimane successive all’introduzione di questo obbligo riempiendo smodatamente le tasche di qualcuno…)

C’è però una regola che andrebbe sempre rispettata, quella del buonsenso. Per l’Indiano alla guida si tratta di un concetto sconosciuto.

Il contromano è istituzionale e il senso di marcia puramente indicativo. La prima volta che ho imboccato l’autostrada ero molto perplesso vedendomi arrivare incontro due camion che si stavano pure sorpassando. Eppure ero dal lato giusto della strada. Ci ho messo poco a capire: in India le strade sono sempre in pessime condizioni, piene di buche e interi tratti senza asfalto: se un conducente pensa che l’altro lato della strada sia in condizioni migliori ci si infila e la percorre contromano. E’ normalissimo, accettato, nessuno se ne lamenta.

Ma sono le strade a singola carreggiata e doppio senso di marcia ad essere le più pericolose: mi è capitato di percorrere tratti in cui tutto il traffico andava, sfortunatamente per me, in direzione opposta alla mia. In quei casi la strada si trasforma impunemente in senso unico doppia corsia….. E’ una cosa spaventosa guidare con l’intero traffico che ti viene addosso e non ha alcuna intenzione di spostarsi, perché tu sei su una cazzo di vespa e loro su auto o camion e quindi che si fa?  Quante volte sono uscito per campi…. L’unica cosa che fanno in quei casi è lampeggiare coi fari o azionare la quattro frecce. Il clacson? Quello è standard, c’era già comunque.

La prima volta che ho trovato una rotonda ho rischiato il frontale: nessuno la percorre correttamente perché di fatto allunga la strada, quindi molto meglio tagliarla no? Le moto e i rishaw si infilano in ogni buco, nessun riguardo verso il prossimo, si sfiorano di continuo, escono dalla strada e percorrono quei tratti ai lati che sarebbero destinati alle persone (in India il concetto di “marciapiedi” è ancora là da venire….) col risultato di creare un traffico unico di macchine e persone, moto e rischaw, cani e capre, vacche e camion, bambini e biciclette.

E i clacson…. Qualunque strada dell’india ha un sottofondo continuo ed esasperante di clacson ininterrotto. Perché? A domanda l’indiano risponde: siamo in troppi e il clacson è per segnalare ai veicoli vicini la nostra presenza. Sarebbe per sicurezza insomma. Certamente in India il clacson è inteso come cortesia verso gli altri veicoli, non come rimprovero per qualche cappella alla guida come da noi: tutti i camion ad esempio hanno scritte dietro che invitano chiunque si avvicini a suonare per segnalare la presenza. Occorre considerare infatti che gli indiani guidano senza specchietti. Tutti. Il motivo è che gli specchietti per svolgere la loro funzione devono giocoforza sporgere dalla sagoma del veicolo e in un traffico in continui sfioramenti durerebbero i tempo di un’Ave Maria. Quindi le moto li ruotano all’interno di 180°, le auto li hanno “chiusi”, i rischaw montati all’interno dell’abitacolo, permettendo di inquadrare perfettamente il sedile posteriore ma non certo la strada. Ma anche questo non basta a spiegare quell’uso incredibile e continuo dei maledetti clacson, che serve soprattutto a comunicare il concetto “occhio che sto arrivando, spostatevi che devo passare”. Ma neppure questo basta: mi è capitato (raramente…) di essere su strade deserte e incrociare una moto che proveniva in senso opposto. Clacson anche lì, e io a domandarmene il motivo. Come cazzo poteva pensare che non lo avessi visto? Messi alle strette molti confessano: lo fanno per “fashion”. Dove stia il “fashion” nel suonare il clacson è qualcosa che solo un indiano può capire, ma gli effetti sono invece evidenti a tutti quanti.

 

Le strade dell’India poi….come descriverle? Posso dire che il TS si è letteralmente smontato. Ci sono intere regioni grosse forse come l’Italia intera in cui nessuna strada è asfaltata. Polvere e buche. Ho rotto di tutto in India. E alcuni danni si sarebbero manifestati da lì a poco. Degli oltre 4000 km percorsi almeno la metà sono stati di strade sterrate o peggio, un tempo asfaltate ma mai oggetto di manutenzione: in queste strade il poco asfalto sopravvissuto costituisce un arcipelago di piccole e durissime “isole” in un mare di terra e ghiaia, scalini alti anche 20 cm rispetto al resto, assolutamente da evitare. Intere giornate a guidare senza potere ingranare una marcia più alta della seconda, a cercare di schivare scalini e buche, avvolto in una nube di polvere.  La prima a cedere è stata la frizione del TS: da lì in poi un diluvio di piccole e sistematiche rotture. Persino gli specchietti retrovisori…..

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Merda e spazzatura sono ovunque. Della prima ho già detto la provenienza. Quella di vacca viene tutta utilizzata saggiamente, detto senza alcun sarcasmo, per alcuni usi: ad esempio diventa combustibile per cucinare o scaldarsi; oppure impastata con fango un ottimo isolante termico e materiale da costruzione; oppure ottimo concime per i campi. Ma tutta l’altra rimane lì nel suo luogo natale, dove è stata generata. In India poi non ci sono cassonetti della spazzatura, non ne esiste il concetto. La poca spazzatura che veniva prodotta fino a qualche decennio fa è sempre stata bruciata per scaldarsi. Questa è un’abitudine che resiste tuttora e a sera per le strade ci sono mille fuochi, accesi in piccoli bracieri poggiati in terra e loro a cerchio che si scaldano le mani. Ma l’avvento della plastica ha completamente cambiato la situazione, in peggio ovviamente. La bruciano comunque e vengono avvolti da quei fumi chimici e velenosi: finita la fiamma rimane una morchia nera e appiccicosa, che è ovunque e impregna le strade. Ma è il concetto stesso di igiene ad essere lontano anni luce dal nostro. Non si tratta solo di pulirsi il culo dopo una cagata semplicemente con acqua e mano (rigorosamente sinistra), soffiarsi il naso in aria (dalle mie parti si dice “alla napoletana”…) o sputare come lama sempre e ovunque. E’ appunto l’idea stessa di pulizia ad essere differente dal nostro. Ad esempio per loro gli “zozzoni” siamo noi occidentali che ci soffiamo il naso nel fazzoletto e poi lo riponiamo in tasca, oppure che ci puliamo il culo sono con carta e senza acqua (con quale orgoglio ho spesso riscattato l’immagine dell’Italia raccontando dell’esistenza del bidet e della sua funzione…)

 

La spiritualità dell’India…ecco un altro sfinito luogo comune. Credo sia “colpa” dei Beatles e del loro famoso viaggio se ancora oggi tutti associano queste due parole: India e spiritualità.

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Prima di tutta: cosa si intende esattamente con questa parola?

Se è spiritualità sentirsi vicini alla natura, rispettare piante e animali in un modo a noi sconosciuto, percepirli come fratelli, composti della nostra medesima essenza e generati dalla stessa Entità superiore, dotati di un’anima trascendente ed eterna quanto noi, allora certamente gli indiani lo sono.

Se è spiritualità l’ostentazione e la pubblica celebrazione dei riti e delle cerimonie della propria religione, avere giornate e stagioni cadenzate da queste, circondarsi di immagini e idoli sacri, credere profondamente nei principi e concetti espressi dal proprio Credo e rispettarne le disposizioni in tema di abbigliamento e alimentazione, certamente gli indiani lo sono. Tuttavia non capisco come mai ci si riferisca al medesimo atteggiamento come “bigottismo” per il mondo occidentale, con strisciante connotazione negativa, e “fanatismo religioso” per quello islamico. Io in realtà un’idea ce l’ho, ma al momento e in attesa di conferme, la tengo per me.

Se infine è spiritualità il disinteresse verso i valori materiali, verso il potere e il denaro che ne è la leva, il desiderio di lusso e gloria e beni terreni, beh allora la spiritualità sta agli indiani come le difficoltà erettili a Rocco Siffredi.

E tuttavia l’India sa essere splendida: nei tesori architettonici, nella sua millenaria e affascinante cultura, nella sua diversità. La sua storia così travagliata è piena di regni e imperi che hanno dominato per pochi secoli o decenni appena, giusto il tempo di instituirne una capitale e riempirla di palazzi e templi, prima di soccombere e scomparire, consegnando però alla Storia le vestigia di quel periodo.

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Oggi luoghi come Fatehpur Sikri, Orcha, khajuraho sono poco più che villaggi, ma custodiscono palazzi e templi che lasciano letteralmente sbalorditi. I templi di khajuraho poi sono davvero particolari…

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Ed è in India quello che è probabilmente l’edificio più bello al mondo, che una storia struggente rende ancora più affascinante: il Taj Mahal di Agra.

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Varanasi, la loro città sacra, è insieme il posto più sporco e più magico che abbia mai visto in vita mia. E questo contrasto non basta comunque a descrivere nulla del luogo in cui ogni indiano sogna di morire ed essere cremato, per uscire finalmente dal ciclo delle reincarnazioni in successive vite terrene, dove ogni indiano deve recarsi almeno una volta nella vita per lavare nelle acque del sacro fiume Gange i peccati di un’esistenza intera. Sacro e profano, cremazioni e negozi di souvenir, merda di vacca in quantità industriali in meravigliosi vicoli stretti del centro storico, così simili ai miei amatissimi carruggi in cui vivo a Genova.

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L’India è certamente un luogo ricchissimo di contrasti, così stridenti da sbalordire.

Inoltre se gli indiani intesi come massa e popolazione appaiono agli occhi di un occidentale, se si fa l’errore di giudicarne i comportamenti in base alle nostre sovrastrutture culturali, irrimediabilmente maleducati e irrispettosi, devo dire che tutti i singoli incontri che ho avuto con loro sono stati belli e piacevoli. Gente con un cuore grande.

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Un esempio, forse neppure il più significativo, è quello che ho avuto la notte la Natale. Il pomeriggio ero arrivato nella città di Vadodara, in Gujarat, e avevo chiesto informazioni su come raggiungere un certo albergo a un ragazzino di 15 anni. Anziché spiegarmi la strada aveva chiamato il padre perché mi ci accompagnasse. Trovato l’albergo mi hanno invitato a cena quella sera, e ho subito accettato. Prima di salutarci mi avevano però chiesto se volevo accompagnarli a distribuire cibo ai poveri. Ingenuamente ho pensato che fossero cristiani e che fosse un’estemporanea iniziativa per la notte di natale. Ma quando mi erano passati a prendere ho capito che non era così. Organizzatissimi, su un furgone con le donne sedute dietro al portellone posteriore con due grosse pentole e piatti e posate e bicchieri; il padre alla guida e una squadriglia di cugini e nipoti a riempire i sedili, pronti a saltare giù ad ogni gruppo di baracche in cui miserrime persone vivono una vita che poco ha di umano, per portare loro un pasto caldo. Il padre mi spiegava che semplicemente quella era la regola della sua famiglia: non si cena se prima non si divide il cibo con chi non ne ha. Ogni giorno. Ha una piccola azienda e ha addirittura stabilito una percentuale fissa da detrarre ai proprio guadagni da destinare a quella operazione. Mi ha invitato a aiutarli, e porgere un pasto caldo a un bimbo che tendeva le mani è stata una delle esperienze più forti della mia vita. Certamente non mi sono sentito migliore, ma meglio si.

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La mia India è stata divisa in due parti, in mezzo il Nepal. E nella seconda parte, durante la discesa verso la Birmania, ho attraversato zone completamente diverse dall’India precedente.

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Stati dai nomi affascinanti come West Bengal, Assan, Nagaland, Manipur; completamente fuori dai circuiti turistici, sconosciuti agli stessi indiani delle altre regioni, un tempo popolate da tribù di “mangiatori di teste”, dove in certe zone tutt’ora si mangia carne di cane e topo e in altre ci sono forti tensioni indipendentiste con frequenti attentati terroristici. Un’emozione speciale e inaspettata è stata attraversare il Bramaputra: uno dei fiumi più grandi al mondo che in alcune zone raggiunge i 10 km di larghezza, talmente poderoso da presentare il raro fenomeno delle maree fluviali, che nasce in Himalaya e percorre migliaia di km prima di congiungersi poco prima della foce con un altro colosso, il Gange, e formare insieme un bacino fluviale paragonabile solo a quello del Rio delle Amazzoni.

Il TS è passato pure sopra le sue acque.

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