Io e il mio TS abbiamo viaggiato in simbiosi per un anno intero, lungo la superficie immensa di questo pianeta.
Noi abbiamo attraversato deserti terribili, che sono luoghi in cui il clima e le distanze possono uccidere, da quelli di sabbia soffice come borotalco in Iran o in Cearà, nel nord del brasile, dove le ruote sprofondano e si piantano, a quello rosso ruggine dell’Outbak australiano, fino al terribile Atacama in Cile dove non piove dal 73.
Abbiamo risalito strade di pietra scavate nello scoglio vivo sul fianco delle montagne più alte del mondo in Nepal, per giungere ai piedi dell’Himalya e rimanerne sbalorditi. Abbiamo percorso per settimane sterrati desolati a 3500 metri sull’altopiano andino, ne abbiamo scavalcato la dorsale principale a 4750 metri dove attorno è solo ghiaccio e roccia e zero vegetazione.
Abbiamo visto il Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo e in assoluto uno dei luoghi che più ci ha fatto vibrare, un luogo magico e mistico e culla di civiltà antichissime. Abbiamo attraversato fiumi mastodontici come non pensavo potessero esistere, fiumi dai nomi esotici e larghi km come il Gange e il Bramaputra in India o l’Irrawaddy in Myanmar. Il Mekong lo abbiamo costeggiato per centinaia di km, perché in Indocina segna il confine naturale tra Laos e Cambogia, mentre sulle acque del rio delle Amazzoni abbiamo navigato per 2000 km nel cuore della foresta a bordo di una barca di legno :il TS tra i bancali di banane e cipolle, io tra le amache dei cento passeggeri, sdraiato sulla mia ad ammazzare zanzare a 35 gradi all’ombra come il colonnello Aureliano Buendia, aspettando il mio turno per l’unico cesso a bordo, e tuttavia completamente circondati da una bellezza che non so descrivere.
Ho guidato il mio TS fino a pochi metri da luoghi incredibili. L’ho guidato fino ai piedi del Taj Majal in india e la Burja Kalifa a Dubai, gli edifici più bello e più alto al mondo. L’ho guidato sulle strade di pietra dell’Angkor Wat, la straordinaria capitale degli antichi Khmer in Cambogia, un popolo che sta all’Indocina come gli antichi romani stanno all’Europa. L’ho portato letteralmente a sbattere contro le pareti di roccia di Uluru, l‘enorme monolite rosso al centro dell’Australia, sacro da millenni agli aborigeni e che è strutturalmente simile ad un iceberg: quello che vediamo non ne è che una minima parte, lui si conficca per chilometri sotto alla crosta terrestre. L’ho guidato dentro alla piazza più bella del mondo, Durbar Square di Kathamandu, dove risiede la Kumari la dea bambina vivente, e dentro la straordinaria distesa di stupa millenari di Bagan, l’antica capitale birmana. L’ho portato ai piedi del Machu Pichu, che in lingua quechua significa ”montagna giovane”, quella appunto ove sorge la favolosa città perduta di pietra degli antichi inca che si trova nell’attuale Peru’.
Ho guidato la mia vespa nel traffico di metropoli enormi: da quello ordinatissimo di Dubai e Singapore a quello caotico di Istanbul e Santiago del Chile, da quello folle e pericolosissimo di Tirana e La Paz a quello per cui non conosco aggettivi efficaci nella nostra amata lingua delle città e dei villaggi indiane, dove non solo non si rispetta il codice della strada ma neppure il buon senso. La prima volta che ho imboccato l’autostrada a Mumbai in direzione nord, verso Gujarat la terra di Gandi, ho trovato camion che mi venivano addosso in entrambi i sensi di marcia. Ci ho messo un giorno intero a capire che lì, a causa delle terrificanti condizioni dell’asfalto pieno di buchi, il traffico si riteneva libero di decidere in quale carreggiata fosse un poco meglio e percorrerlo indifferentemente nel senso di marcia desiderato.
Ho cambiato quattro pistoni , due cilindri e due frizioni. Nell’amazzonia brasiliana, in acre la terra del grandissimo chico mendes, foravo almeno due volte al giorno per una settimana intera. Ho percorso 1500 km completamente senza freni tra Thailandia e Malesia, ho saldato i portapacchi decine di volte e guidato spesso di notte coi fari KO in un buio così fitto che mi toccava aspettare che arrivasse una macchina per lanciarmi all’ inseguimento e sfruttarne i fari.
Ho visto il mondo e pensato e osservato tanto, perché la sella di una Vespa è un luogo privilegiato.
Da questa grandiosa esperienza è nato “Il giro del mondo a 80 all’ora”.